Non è il Lavoro il Problema. È il tuo capo!

Non è il Lavoro il Problema. È il tuo capo!

Quando il capo è il problema: la vera causa delle dimissioni

Ogni volta che un lavoratore dà le dimissioni, parte l’inchiesta: era il carico di lavoro? La retribuzione? L’ambiente aziendale? Spesso si cercano risposte tra i numeri di bilancio e i benefit offerti. Ma il vero motivo è più semplice, più personale… e più ignorato: le persone non lasciano il lavoro, lasciano i loro capi.

Secondo una ricerca di Gallup, il 70% del livello di engagement (coinvolgimento) dei lavoratori dipende dal comportamento del loro diretto superiore. È lì, in quell’interazione quotidiana, che si gioca la vera partita. Il capo non è solo una figura organizzativa: è colui che può trasformare il lavoro in una palestra di crescita oppure in una prigione psicologica.

Le micro-umiliazioni quotidiane

Parliamoci chiaro: un capo che non ascolta, che si prende meriti altrui, che ignora il valore della gentilezza o che pratica la “gestione per intimidazione”, non solo mina la produttività. Minaccia la dignità. Un ambiente in cui si riceve solo critica e mai incoraggiamento, dove la comunicazione è passivo-aggressiva o peggio, manipolatoria, è un contesto che consuma le persone dall’interno. La frase “non ne posso più” non nasce mai da un singolo episodio. È l’ultimo passo dopo una lunga serie di gocce che scavano la fiducia.

Il bisogno di contare e la fuga dalla svalutazione

Ogni essere umano ha un desiderio profondo: essere visto. Non solo per quello che fa, ma per quello che è. Un capo che ignora, sminuisce o addirittura isola un dipendente, non sta solo compiendo una cattiva gestione: sta mettendo a rischio il senso di identità professionale di quella persona.

Spesso, chi si dimette lo fa dopo aver cercato a lungo di “resistere”, ma alla fine cede. Non perché il lavoro sia duro, ma perché non si sente più riconosciuto. Non si lavora bene dove si sopravvive. Si lavora bene dove si fiorisce.

La leadership che fa restare

Allora qual è la soluzione? La risposta non è solo nei corsi di leadership, ma nella consapevolezza emotiva. Un capo deve sapere leggere i segnali, chiedere come sta davvero un collaboratore, accettare feedback, fare autocritica, celebrare i successi, sostenere nei momenti difficili.

Un buon leader non è quello che “ottiene risultati”, ma quello che fa crescere le persone e le fa restare. La vera leadership è un atto di responsabilità emotiva, non solo organizzativa.

Essere leader oggi significa molto più che gestire processi o organizzare turni. Significa essere catalizzatori di fiducia, costruire una relazione sana che permetta al dipendente di sentirsi al sicuro, rispettato e valorizzato. Le persone restano dove si sentono parte di un progetto, non solo di un organigramma.

E la chiave di questa permanenza è la sicurezza psicologica, un concetto descritto con chiarezza da Amy Edmondson: si tratta della percezione che si possa parlare apertamente, anche di errori o difficoltà, senza paura di essere puniti o umiliati. Un leader che offre questo spazio fa la differenza tra un team che sopravvive e uno che innova.

Inoltre, un capo che investe tempo nella crescita individuale dei propri collaboratori – anche a costo di vederli spiccare il volo altrove – dimostra una forza interiore rara. È proprio questo tipo di guida a lasciare un segno indelebile, perché sa che trattenere le persone con la paura è inutile, ma farle restare per scelta è una conquista che profuma di vera autorevolezza.

Un buon leader non è quello che “ottiene risultati”, ma quello che fa crescere le persone e le fa restare. La vera leadership è un atto di responsabilità emotiva, non solo organizzativa.

Cosa può fare l’azienda?

Le aziende che vogliono ridurre il turnover devono cominciare da qui: formare i capi, valutarli anche sulla base del clima relazionale, non solo dei risultati numerici. Premiare chi sa creare appartenenza, non solo chi raggiunge obiettivi o più semplicemente rivolgersi a professionisti che sappiano ascoltare a valorizzare il lavoro e le figure che vi operano. E soprattutto, ascoltare. Perché ogni volta che un talento lascia l’azienda, c’è sempre una storia di disconnessione che poteva essere evitata.

Bibliografia

  • Gallup (2019). State of the American Manager;

  • Goleman, D. (1995). Intelligenza Emotiva. Rizzoli;

  • Buckingham, M., & Coffman, C. (2000). First, Break All the Rules. Simon & Schuster;

  • Lencioni, P. (2002). The Five Dysfunctions of a Team. Jossey-Bass;

  • Edmondson, A. (2019). The Fearless Organization. Wiley.