Le pause mangiate «Ci sono cose che si mangiano in silenzio: il rispetto è una di queste. Il tempo per sé, un’altra.»
Negli open space, nei corridoi degli ospedali, nei break room delle aziende ma anche sulle scrivanie, è facile imbattersi in una scena sempre più comune: persone che, pur con una forchetta in mano, rispondono al telefono. Che parlano di consegne, scadenze, imprevisti, come se il suono del proprio stomaco non fosse abbastanza forte da meritare attenzione. Ma perché accade? Perché anche durante una pausa sacrosanta come quella del pranzo, molti non riescono a “staccare”?
Una società in cui il confine non esiste più e le pause sono mangiate
Viviamo in un’epoca in cui la reperibilità è diventata una virtù distorta. Il diritto al disconnettersi è ancora troppo spesso un optional culturale, più che un diritto realmente riconosciuto nella pratica. Secondo uno studio della European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (2020), oltre il 25% dei lavoratori europei continua a ricevere richieste lavorative durante le pause ufficiali. Il pasto caldo non è solo una questione biologica o gastronomica: è un simbolo di umanità, di centratura personale, di diritto al respiro. Quando il pasto viene disturbato da una chiamata di lavoro, non è solo il cibo a raffreddarsi. Si raffredda anche il senso di rispetto per sé stessi.
Un tema profondamente interiore: identità e controllo
C’è anche una dinamica interiore più sottile. Alcune persone non riescono a lasciare il telefono neppure durante le pause perché hanno costruito il proprio senso di valore sull’essere “indispensabili”. Questo fenomeno ha un nome: overcommitment professionale. Come descritto da Johannes Siegrist (2004), si tratta della tendenza a sovra-identificarsi con il proprio ruolo professionale, sacrificando salute e tempo personale per evitare il senso di colpa o l’ansia da inutilità. Questa modalità non è sempre imposta dall’azienda. Talvolta è auto-imposta, alimentata quasi certamente da dinamiche psicologiche profonde: la paura del giudizio, la difficoltà a dire di no, l’incapacità di distinguere tra efficienza e autolesionismo.
Diritti sì, ma anche dignità
Giuridicamente, la pausa pranzo è tutelata. L’art. 8 del D.Lgs. 66/2003 stabilisce che i lavoratori hanno diritto a una pausa quando l’orario giornaliero supera le sei ore, con l’obiettivo di recuperare energie psicofisiche. Ma la legge può poco quando entra in gioco la cultura aziendale e la mentalità collettiva. Se il contesto promuove un modello di efficienza continua e premia la reperibilità costante, anche il diritto più legittimo rischia di essere calpestato. In molte aziende si è creato un clima sottile di pressione, dove chi stacca veramente è percepito come “meno performante”, “meno dedicato”, anche se in realtà è solo più sano.
La parte più dimenticata: il sentimento umano
Qui entra in gioco la parte emotiva, che spesso resta invisibile. Chi mangia rispondendo al telefono non si sente fiero. Si sente frammentato. Vive un conflitto sottile tra ciò che vorrebbe (mangiare in pace, magari scambiare due chiacchiere con un collega) e ciò che “deve” fare per non sembrare negligente. Si crea così un cortocircuito emotivo fatto di piccoli risentimenti: verso l’azienda, verso se stessi, verso una cultura che ha reso l’urgenza la normalità. A lungo andare, questo può generare distacco emotivo (emotional detachment), una delle componenti del burnout secondo Maslach & Jackson. Se il tempo del pasto diventa tempo di lavoro, il corpo resta nutrito, ma la mente inizia a digiunare di umanità. Educare al rispetto delle pause significa riconoscere il valore del tempo non produttivo. La pausa pranzo dovrebbe essere tutelata non solo nei contratti, ma anche nei gesti, nei comportamenti, nel linguaggio. Una leadership evoluta dovrebbe incoraggiare i collaboratori a staccare davvero, perché la rigenerazione non è una perdita di tempo, è un investimento. E per chi si sente in colpa nel mangiare in silenzio, in pace, lontano dalle chiamate e dalle notifiche: è il segnale che è arrivato il momento di rimettere al centro se stessi. Non per egoismo, ma per dignità.
Conclusione: pausa pranzo come atto rivoluzionario
In un mondo che ci vuole costantemente connessi, mangiare in pace è un atto rivoluzionario. Recuperare la sacralità di un pasto significa dare valore a se stessi, al proprio corpo e alla propria psiche. Significa educare gli altri a rispettare il nostro tempo, affinché non sia più necessario rispondere a una chiamata mentre si mastica una forchetta di dignità.
Bibliografia
- Siegrist, J. (2004). Adverse health effects of high-effort/low-reward conditions. Journal of Occupational Health Psychology;
- Maslach, C., & Jackson, S. E. (1981). The measurement of experienced burnout. Journal of Organizational Behavior;
- Eurofound (2020). Telework and ICT-based mobile work: Flexible working in the digital age;
- D.Lgs. 66/2003 – Normativa italiana sull’orario di lavoro e le pause;
- Goleman, D. (1995). Emotional Intelligence. Bantam Books.