Il senso della vita lavorativa. Elemosinare il riconoscimento.

Il senso della vita lavorativa. Elemosinare il riconoscimento.

Elemosinare il riconoscimento. Una trappola per molti

In una vecchia intervista, viene chiesto al Maestro Franco Battiato quale sia il senso della vita. Lui non risponde da cantautore, ma da uomo consapevole. Cita Santa Teresa d’Ávila, con la parabola di un uomo che chiede l’elemosina fuori da un palazzo maestoso, senza sapere che quel palazzo è il suo. È una metafora potente. È l’immagine di un’esistenza intera spesa nel mendicare riconoscimento, affetto, successo o stabilità, dimenticando che molto di ciò che cerchiamo è già in nostro possesso — se solo ci fermassimo a guardare dentro.

Viviamo davvero la vita che abbiamo scelto? O stiamo semplicemente interpretando un copione scrittoci da altri? Stiamo dando un reale senso della vita al nostro percorso? In nome di una realizzazione che spesso è sociale più che personale, costruiamo carriere, accumuliamo titoli, e poi ci ritroviamo esausti a domandarci se tutto questo ha davvero senso.

La società contemporanea ha creato un’illusione: non basta vivere, bisogna “performare”. Bisogna raggiungere obiettivi, spesso senza chiederci se ci appartengono davvero. Si lavora per vivere, dicono. Ma per molti, la vita finisce per coincidere con il lavoro. Il rischio è quello di scambiare la funzione per la missione, l’apparenza per l’essenza, il dovere per il desiderio.

Il problema non è l’ambizione, ma la direzione dell’ambizione. Come scrive Viktor Frankl, “Chi ha un perché per vivere può sopportare quasi ogni come”. Ma quel “perché” deve essere autentico. Non può essere solo l’approvazione degli altri o l’aderenza a modelli esterni.

Quanti di noi si sono fermati davvero a chiedersi: “Sto costruendo la mia vita, o quella che mi è stata suggerita?” Ogni volta che accumuliamo, che ci affanniamo, che rincorriamo, dovremmo domandarci: per chi lo sto facendo? E soprattutto: ne vale la pena?

La psicologia sociale ci ricorda che uno degli errori più grandi è vivere nella dissonanza tra il sé autentico e il sé sociale. Il sociologo Erving Goffman ci parlava del “teatro della vita quotidiana”, dove indossiamo maschere e ruoli, dimenticando chi siamo veramente. In questo teatro, il successo può diventare una prigione dorata: quando otteniamo ciò che volevamo solo per scoprire che non era ciò di cui avevamo bisogno.

Non è un invito a smettere di lavorare, ma a rientrare in possesso del proprio castello interiore. A riconoscere che si può ambire senza smarrirsi, costruire senza dimenticare il perché. Non siamo qui solo per produrre. Siamo qui per vivere. Per cercare — anche a fatica — la coerenza tra quello che facciamo e quello che siamo.

Come affermava Carl Rogers: “Il curioso paradosso è che quando mi accetto così come sono, allora posso cambiare.” Accettare ciò che abbiamo, riconoscere la nostra ricchezza interiore, non è rinuncia. È il primo passo verso un cambiamento autentico, libero dal bisogno compulsivo di rincorrere obiettivi che ci consumano.

In definitiva, non siamo chiamati a vivere una vita perfetta, ma una vita che abbia senso per noi. Non a mendicare fuori dal castello, ma a tornare ad abitarlo, con consapevolezza e gratitudine. E allora si comprende che il senso della vita risiede nella presenza consapevole, nella gratitudine per ciò che è già nostro, senza più inseguire approvazioni o modelli imposti.
Siamo noi i custodi silenziosi di un’esistenza spesso sottovalutata, e solo ritrovandoci possiamo davvero vivere, non semplicemente esistere.

Per questo, riconoscere il proprio valore non basta: serve spesso uno sguardo esterno. Un esperto può aiutarti a rileggere la tua storia lavorativa, trasformandola in consapevolezza, direzione e possibilità. Chiedere supporto non è un segno di debolezza, ma l’atto più forte per iniziare a vivere davvero il proprio percorso di vita.

Bibliografia

  • Frankl, V. E. (2007). Man’s Search for Meaning. Beacon Press;

  • Rogers, C. (1961). On Becoming a Person. Houghton Mifflin Harcourt;

  • Santa Teresa d’Ávila. Il Castello Interiore, ed. Paoline;

  • Goffman, E. (1959). The Presentation of Self in Everyday Life. Anchor Books;

  • Fromm, E. (1976). Avere o Essere?. Mondadori;

  • Bauman, Z. (2000). Liquid Modernity. Polity Press.