Perché il lavoro non è solo risultati
Non puoi vincere sempre, ma puoi sempre imparare: la lezione di Giannis Antetokounmpo e l’arte di vivere il lavoro.
> “Ogni giorno non è una finale, ma ogni giorno è un’occasione per capire come giocarla al meglio delle tue possibilità.”
— Giacomo Lastretti
Quando Giannis Antetokounmpo, star della NBA e simbolo vivente di riscatto, perse una serie di playoff con i suoi Milwaukee Bucks, un giornalista gli domandò: «Quindi, questa stagione è un fallimento?»
La domanda, apparentemente neutra, toccava una corda molto più profonda del semplice sport. Era una domanda sul senso della sconfitta, sul significato del lavoro quotidiano, sul valore che diamo a ciò che facciamo quando non arriva il risultato. Giannis si fermò, prese un lungo respiro e rispose con parole che oggi, anni dopo, risuonano come una lezione universale:
> “Ogni anno fai un passo avanti verso il tuo obiettivo. Michael Jordan ha vinto 6 titoli in 15 stagioni. Le altre nove sono state un fallimento? No. Sono stati passi per arrivare al successo.”
Queste parole non parlano solo di sport. Parlano di vita. E soprattutto parlano di lavoro. Di quell’opera silenziosa e costante che manager e impiegati, imprenditori e collaboratori, stagisti e dirigenti portano avanti ogni giorno, in silenzio, spesso lontano dai riflettori.
Siamo ossessionati dal risultato
Viviamo in un’epoca in cui ogni azione sembra dover produrre un effetto visibile, misurabile, immediatamente gratificante. Se un progetto non ha portato numeri, è stato un fallimento. Se una mail non ha avuto risposta, è stata inutile. Se un collaboratore ha commesso un errore, ha “fallito”.
Ma è proprio qui che serve fermarsi. Respirare. E ricordare che il lavoro è come una stagione, non una partita secca. Non si può vincere ogni giorno. E non è necessario vincere ogni giorno per crescere, perché il lavoro non è solo risultati
La crescita, quella vera, quella profonda, quella che costruisce uomini e donne forti, avviene proprio quando le cose non vanno come previsto.
Il valore della sconfitta nel percorso lavorativo
Ogni manager che oggi guida con autorevolezza ha vissuto almeno una stagione di scelte sbagliate, di team mal costruiti, di strategie fallimentari. Ogni impiegato che oggi lavora con padronanza ha conosciuto momenti di insicurezza, di errori evitabili, di frasi dette o taciute al momento sbagliato.
Ma la sconfitta non è un giudizio morale. È un momento. È un punto nel tempo. È una stazione, non la destinazione.
Lo psicologo Albert Bandura, teorico dell’auto-efficacia, sosteneva che le persone non imparano tanto dal successo quanto dalla gestione dell’insuccesso. È quando cadi e ti rialzi che scopri la misura della tua resilienza. E come disse Alfred in “Batman Begins”: “Perché cadiamo, signor Wayne? Per imparare a rialzarci.” (Clicca qui per un approfondimento)
Eppure, ci viene insegnato l’opposto: che perdere è sinonimo di inadeguatezza, che sbagliare è vergognoso, che fallire è inutile. Ma questo è un racconto falso, pericoloso, tossico. Un racconto che produce ansia, burnout, silenzi e ipocrisie nei luoghi di lavoro.
Il manager che non accetta il fallimento, e l’impiegato che lo nasconde
Il manager che crede di dover vincere sempre, sarà un tiranno con se stesso e con gli altri. Tratterà gli errori come offese personali, punirà la vulnerabilità, vedrà nella crisi solo una minaccia. Ma un leader vero è colui che resta centrato anche nella tempesta, che accetta di aver sbagliato una scelta, ma non per questo smette di fidarsi dei suoi uomini.
Dall’altra, l’impiegato che teme il giudizio, che crede che ogni inciampo sia la prova della sua inadeguatezza, non si concederà mai il lusso di imparare. Fingerà. Reciterà sicurezza. Cercherà di coprire ogni errore. Ma così facendo, rallenterà il proprio cammino.
Il lavoro è fatto di tappe. Non è un podio, è un sentiero. E la dignità professionale si misura non con la perfezione, ma con la capacità di continuare, imparare, crescere, anche nei giorni storti.
Imparare anche quando va bene
C’è un altro aspetto meno raccontato, ma altrettanto cruciale: imparare anche quando va tutto bene.
Perché anche il successo, se non interrogato, può diventare una trappola. Quante volte dopo un buon risultato ci adagiamo, diventiamo arroganti, smettiamo di ascoltare, di confrontarci? Ecco perché il successo va trattato con umiltà. È una tappa, non una consacrazione.
Un bravo professionista si riconosce anche da questo: non si esalta nei giorni d’oro, non si annienta in quelli bui. Sa che ogni stagione ha i suoi frutti, e ogni frutto richiede cura.
Che tu sia un CEO o un neoassunto, ricordati: non esiste fallimento quando c’è apprendimento. Esiste solo esperienza. E come disse la stella NBA Giannis, esiste solo il tentativo quotidiano, onesto e autentico, di diventare un po’ migliori.
In fondo, il lavoro è una scuola di vita. E ogni giornata, buona o cattiva che sia, è una pagina del nostro libro dove dobbiamo sforzarci di capire che non tutti i capitoli sono felici. Ma ogni capitolo è necessario.
Bibliografia
Bandura, A. (1997). Self-efficacy: The Exercise of Control;
Dweck, C. (2006). Mindset: The New Psychology of Success;
Seligman, M. E. P. (2011). Flourish;
Intervista di Giannis Antetokounmpo – [NBA Playoffs Postgame, 2023].