L’ultima parola come stile di potere, come sopravvivere a chi vuole sempre avere ragione
C’è chi entra in una stanza e porta con sé l’aria che respira. La occupa. La impone. La modella su misura delle sue opinioni. Ogni confronto si trasforma in un monologo, ogni domanda in un’occasione per parlare — ancora una volta — di sé. Sono i “signori dell’ultima parola”: colleghi, capi, partner di business o referenti di reparto che non cercano dialogo, ma affermazione. Non comunicano, sentenziano.
Dietro questa tendenza apparentemente fastidiosa — e spesso liquidata con un’alzata di spalle — si cela una struttura psicologica ben precisa, e più diffusa di quanto si pensi. E soprattutto: non è una questione di carattere, ma di insicurezza. Di bisogno patologico di conferma.
Chi ha sempre ragione… teme il confronto
L’essere umano che ha bisogno di avere sempre l’ultima parola non è, in fondo, sicuro di sé. Anzi: più grida, più zittisce, più lotta per imporsi, più mostra le sue crepe interne. Secondo uno studio pubblicato sulla Personality and Social Psychology Bulletin, chi interrompe, domina e impone il proprio punto di vista tende a mostrare livelli più alti di ansia sociale e paura del rifiuto.
In azienda, questi comportamenti si moltiplicano nei contesti in cui manca la cultura del feedback, dove si confonde l’autorità con la prepotenza e la leadership con il volume della voce. Come dicevo spesso ai miei colleghi dirigenti:
“Avere sempre l’ultima parola non dimostra intelligenza, ma paura di perderla.” — Giacomo Lastretti
Le 3 maschere del dittatore verbale
Chi vuole sempre avere ragione non si presenta mai con un cartello al collo. Ha mille forme, alcune persino amabili. Ecco le più comuni:
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Il Capo Oracolo: ogni sua frase è verità assoluta. Interrompe riunioni con i suoi pareri, anche quando non richiesti. Non delega davvero, commenta tutto, pretende l’ultima parola persino sul modo di chiudere una mail;
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Il Collega Saputello: anche quando sbaglia, rilancia. Usa dati fuori contesto pur di non perdere terreno. Le sue frasi iniziano spesso con “Sì, ma…” oppure “In realtà…”;
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Il Leader Passivo-Aggressivo: ascolta in silenzio, poi chiude con una frase tagliente. Non grida, ma sminuisce. Non corregge, ma umilia con lo sguardo o col sarcasmo.
Dietro a tutte queste maschere si nasconde lo stesso meccanismo: non ascolto per capire, ma per controbattere.
Danni invisibili (ma devastanti)
Quando in un ambiente di lavoro si lascia spazio solo a chi deve dire l’ultima, si crea un silenzio molto più pericoloso di quello acustico: il silenzio creativo. Le idee smettono di fluire. I collaboratori non parlano più per contribuire, ma per proteggersi. Nasce il “consenso apparente”: si annuisce, si tace, si finge di essere d’accordo. E quando nessuno osa dire più nulla, chi parla per ultimo ha davvero distrutto la conversazione.
In termini aziendali, questo si traduce in:
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perdita di talento; abbassamento della motivazione; aumento del turnover e team che eseguono ma non pensano.
Dall’autorità all’autorevolezza
Essere ascoltati non è un diritto, è una conquista. Chi parla meno e ascolta meglio spesso dice parole più pesanti. Le parole non vanno mai misurate in quantità, ma in qualità. In questo senso, la vera autorevolezza è fatta di pause, non di proclami.
Come coach ho lavorato con molti manager, dirigenti, liberi professionisti convinti che avere sempre l’ultima parola fosse sinonimo di controllo. In realtà era solo il loro modo di non affrontare il caos del confronto. Il punto è che un vero leader non ha bisogno di parlare per ultimo: lascia che siano i risultati — e le persone — a parlare per lui.
Strategie per difendersi (senza fare la guerra)
Se ti trovi quotidianamente accanto a chi vuole sempre avere ragione, non serve sfidarlo. Serve difendersi in modo intelligente. Ecco 5 consigli pratici:
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Non cadere nel gioco
Non rispondere col tono, ma con i fatti. Chi cerca l’ultima parola vuole la tua reazione: negagliela; -
Metti un limite al tempo, non al contenuto
In riunione, proponi tempi prestabiliti per parlare. Chi parla tanto odia la sintesi, ma la sintesi lo educa; -
Fai domande “chiuse”
Domande specifiche e precise lo costringono a essere conciso. Es. “Se dovessi scegliere tra A e B, quale preferiresti?”; -
Usa la tecnica del “sì… e”
Invece di dire “no” diretto, rispondi “sì, capisco… e secondo me potremmo anche considerare…”;
È un modo elegante per uscire dallo scontro. -
Appellati a un metodo
Porta la conversazione su un piano oggettivo: numeri, dati, regole, linee guida. Così smetti di essere tu contro lui.
In conclusione: il valore del silenzio
Il mondo del lavoro ha bisogno di più silenzio. Ma non un silenzio remissivo: un silenzio che ascolta, accoglie, comprende. Chi ha bisogno di dominare sempre la scena, in realtà non ha mai imparato a condividerla. E questo è il vero dramma: quando il dialogo diventa un duello, non ci sono né vincitori né vinti. Solo relazioni svuotate. Impara dal silenzio a parlare anche con chi non stima (clicca qui l’articolo) ed impara anche nel silenzio a mantenerti sempre in equilibrio.
Concludo con una frase che dico spesso in alcuni miei percorsi: “Nel teatro della comunicazione, chi vuole sempre l’ultima battuta spesso dimentica di ascoltare l’applauso.” — Giacomo Lastretti
Bibliografia
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Ames, D. R., & Flynn, F. J. (2007). What breaks a leader? Overconfidence and dominance in management. Organizational Behavior and Human Decision Processes;
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Brown, B. (2018). Dare to Lead. Random House;
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Cialdini, R. (2021). Pre-Suasion. Harper Business;
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Kets de Vries, M. (2001). The Leadership Mystique. Prentice Hall.