Il silenzioso logoramento di chi fa sempre tutto giusto, ma non si sente più vivo
Nel racconto tradizionale del burnout, il nemico ha un volto ben preciso: troppe ore, troppi compiti, troppa pressione. È l’immagine del professionista in trincea, sommerso da responsabilità, riunioni, urgenze e scadenze. Ma c’è un’altra forma di logoramento, più silenziosa, meno visibile, e per questo ancora più insidiosa: il burnout da routine. Se vuoi approfondire leggi questo articolo (Clicca qui).
Il problema non è il carico, ma la noia
Non è causato dal sovraccarico. È figlio della ripetizione, dell’assenza di stimoli, del fare sempre le stesse cose, negli stessi modi, con le stesse persone e senza alcun margine per l’inaspettato. È un esaurimento che non urla, non esplode. Si insinua. Ti svuota senza farsi notare, fino a spegnere ogni spinta creativa, ogni entusiasmo residuo.
Quello che succede, in questi casi, è che la mente smette di sentirsi utile. Non perché il lavoro non abbia una funzione, ma perché la persona che lo svolge non si sente più parte di un’evoluzione. Tutto è statico, congelato, prevedibile. E anche se nessuno ti urla contro, anche se nessuno ti sfrutta, anche se hai orari accettabili e colleghi pacati, ti scopri esausto lo stesso.
Questa condizione riguarda moltissimi professionisti: impiegati in aziende stabili, operatori di servizi pubblici, addetti ai reparti esecutivi, ma anche manager che hanno ormai “fatto il giro completo” delle proprie competenze e che, pur essendo efficienti, non crescono più. Non sono stressati. Sono svuotati.
E a differenza del burnout classico, che a volte si manifesta con rabbia, agitazione, stanchezza fisica e sintomi evidenti, il burnout da routine indossa una maschera più sottile: la distrazione cronica, la mancanza di entusiasmo, l’insofferenza verso le stesse domande, gli stessi orari, gli stessi corridoi.
Spesso chi ne è colpito non sa nemmeno di esserlo. Si limita a pensare di “essere cambiato”, di “essere diventato meno motivato”, o peggio, di “non avere più stimoli personali”. La verità? È il contesto che lo ha consumato, ripetendogli ogni giorno la stessa frase muta: “Rimani uguale. Non ti muovere. Fai solo ciò che già sai fare.”
In psicologia, si parla di deprivation burnout, una forma di affaticamento mentale legata non all’eccesso ma alla deprivazione di senso, di varietà, di feedback autentico. Perché il cervello umano ha bisogno di microcambiamenti, di narrazione, di una traiettoria evolutiva — anche piccola — per restare attivo. Senza questa traiettoria, anche le cose più semplici diventano pesanti.
Chi è colpito da questo tipo di burnout tende a sentirsi colpevole. Pensa di avere tutto: un lavoro stabile, orari contenuti, assenza di conflitti. Eppure dentro sente una nebbia. Una noia che diventa identità, che si infiltra nel tono di voce, nella postura, nella voglia di partecipare. E quando la noia si incrosta nell’identità, ci si convince di essere sbagliati, non solo stanchi.
Quando scopri di essere diventato invisibile
Le aziende raramente vedono questo tipo di sofferenza. Perché chi la vive, spesso, non crea problemi. Fa tutto come si deve, ma ha spento la luce dentro. E questa è la tragedia più grande: non essere malvisti, ma essere invisibili. Non essere rifiutati, ma non essere più vivi nel proprio ruolo.
Il coaching può fare molto in questi casi. Non per riempire l’agenda, ma per riaccendere l’orientamento interno. Capire cosa ha senso oggi, riscrivere una narrazione che non sia fatta solo di doveri, ma anche di possibilità. Ogni piccola variazione nella routine, se costruita con consapevolezza, può essere l’innesco di una nuova energia.
“Il burnout da routine non ti brucia. Ti spegne. Non ti consuma il corpo: ti addormenta l’anima.” — Giacomo Lastretti
A volte bastano piccole cose: un progetto laterale, un nuovo compito che ti costringe a usare un’altra parte di te, una conversazione in cui poter proporre un’idea diversa, anche se non cambia il mondo. La sfida non è rivoluzionare il lavoro. È ritornare a sentire di avere ancora qualcosa da dare — e di meritare qualcosa che vada oltre la ripetizione.
Perché no, non siamo fatti per funzionare come una stampante. Siamo fatti per pensare, per migliorare, per sorprenderci ogni tanto, anche in ufficio. E quando questo accade, anche le giornate più uguali tornano ad avere una sfumatura nuova. Che è poi ciò che distingue la vita dal semplice funzionamento.
Bibliografia:
-
Maslach, C., & Leiter, M. P. (2016). Burnout at Work: A Psychological Perspective;
-
Schaufeli, W.B. (2017). Applying the Job Demands-Resources Model: A ‘How to’ guide to measuring and tackling burnout;
-
Csikszentmihalyi, M. (1990). Flow: The Psychology of Optimal Experience;
-
Pink, D. H. (2009). Drive: The Surprising Truth About What Motivates Us.